La crisi climatica che stiamo vivendo ha radici complesse e la consapevolezza delle sue molteplici dimensioni è sempre più forte nei movimenti sociali che lottano per un cambiamento sistemico. Sempre più, questi movimenti convergono su tre questioni fondamentali per attuare un cambiamento che sia davvero trasformativo: la necessità di muoversi verso uno scenario post-crescita per far fronte alla crisi ecologica, il bisogno di farlo seguendo una prospettiva decoloniale e, infine, raggiungere quell’obiettivo senza riprodurre sistemi di dominio e sfruttamento, come capitalismo, patriarcato, omotransfobia, xenofobia e razzismo, abilismo. Si tratta di riconoscere il legame esistente tra le molte crisi del mondo attuale e l’importanza di affrontarle contemporaneamente.
Un primo punto è quello della crescita. Ad oggi, secondo l’IPCC lo scenario più probabile proseguendo con gli attuali tassi di crescita prevede un aumento della temperatura globale nel 2100 tra i +3° e +6° C, un livello definito “incompatibile con la vita come la conosciamo oggi”. Nonostante questo monito della comunità scientifica e la firma degli Accordi di Parigi nel 2015 per limitare a 1,5° l’aumento della temperatura globale, nessun Paese sembra oggi sulla buona strada e la concentrazione di CO2 in atmosfera continua ad aumentare1. Molti piani di transizione, tra cui anche il Green Deal Europeo, non prevedono il superamento dell’obiettivo dell’aumento del PIL, ma si basano ancora sul principio della “crescita verde”. Questa narrazione sostiene che è possibile raggiungere, attraverso una maggiore efficienza ottenuta grazie all’innovazione tecnologica, il disaccoppiamento della crescita economica dall’impatto ambientale che questa fino ad ora ha sempre comportato. La correlazione tra crescita esponenziale del PIL e aumento dell’utilizzo di materia ed energia e produzione di inquinamento e scarti è una realtà da ormai centocinquant’anni e non ci sono evidenze che indicano che è possibile che una tale condizione di “crescita sostenibile” sia possibile2. Sembra piuttosto un mito funzionale alla sopravvivenza dell’attuale sistema economico.
Un secondo punto è la profonda disuguaglianza della crisi climatica. I movimenti sociali che lottano per arrestare il collasso climatico riconoscono sempre più che la transizione ecologica deve essere decoloniale perché la crisi ecologica non tocca tutti i paesi allo stesso modo né ogni paese ha avuto lo stesso impatto nel provocarla. Per quanto riguarda la responsabilità storica, il 92% delle emissioni di CO2 è dovuta ai paesi del Nord del mondo, mentre solo l’8% a quelli del Sud. Sconvolge vedere come la proporzione si ribalti per quanto riguarda gli effetti della crisi: ad oggi, i Paesi del Sud hanno subito il 90% dei decessi riconducibili alle conseguenze del cambiamento climatico. E’ necessario che la politica tenga conto di queste profonde disuguaglianze e non riproponga dinamiche coloniali, per esempio ponendo dei limiti che ancora una volta favoriscono i paesi del Nord del mondo a scapito di quelli del Sud, come proposte di “zero emissioni nette” a livello globale. Non è possibile pensare a una soluzione giusta e rapida senza immaginare una riduzione della produzione e del consumo nei paesi del Nord del mondo, cioè un’uscita dal paradigma della crescita. Il livello di produzione nei paesi più ricchi, oltre ad essere insostenibile per il pianeta, è anche basato sullo sfruttamento delle risorse lavorative e materiali di Paesi di altri continenti, resi in questo modo più poveri e dipendenti. La decrescita è una proposta politica intrinsecamente decoloniale.
Infine, è importante considerare la pluralità di livelli della crisi che stiamo vivendo e riconoscere le interconnessioni tra le molte forme di sfruttamento. L’attuale sistema economico capitalistico è centrato sulla ricerca dell’efficienza e dipendente dalla crescita continua. L’obiettivo è l’aumento costante del PIL come promessa di benessere e il principale meccanismo per raggiungerlo, per ridurre i costi, aumentare i guadagni e crescere, è stato quello di trovare e sfruttare risorse e forza lavoro sempre più economiche. Nella storia del capitalismo, la condizione di dipendenza e povertà dei lavoratori proletari a partire dalle miniere dell’Inghilterra del 1700 fino ad oggi e lo sfruttamento di persone e territori nelle colonie sono due facce della stessa medaglia, quella del sistema capitalista alla ricerca di materie prime e lavoro a basso costo per aumentare il profitto. Le colonie e la schiavitù costituirono per secoli, dal 1500 al 1800, una parte dei sistemi di produzione e lavoro fondamentale all’accumulazione di risorse e lavoro a favore dell’impero, spesso rimpiazzando le economie locali. Il capitalismo, come altri sistemi di sfruttamento si basa e si è basato sulla creazione culturale di un “altro” e di un “altrove” che è lecito sfruttare, di identità marginalizzate e invisibilizzate. Basti pensare ai lavoratori proletari, agli schiavi, ai bambini lavoratori, al lavoro riproduttivo delle donne, fondamentale per il capitalismo ma non riconosciuto né pagato. Anche il patriarcato, benché sia culturalmente antecedente alla nascita del capitalismo, si fonda sullo stesso meccanismo di marginalizzazione che è stato assunto dal sistema economico come opportunità di sfruttamento. Il lavoro domestico, riproduttivo, di cura, sono alcune delle attività, storicamente a carico delle donne, fondamentali per il benessere della società ma non considerate dal sistema economico. Il punto in comune tra antropocentrismo, etnocentrismo, razzismo, classismo, colonialismo, patriarcato, xenofobia, omotransfobia e abilismo è che questi sistemi di dominio sono stati assunti dal sistema economico capitalistico e si reggono sullo sfruttamento di gruppi a cui è imposta la “marginalità”, un luogo di invisibilizzazione e dipendenza. Ecco perché la lotta per un cambiamento oltre il capitalismo e per un pianeta vivibile deve essere intersezionale, cioè deve considerare le molteplici forme di sfruttamento esistenti in modo da non riprodurle. È necessario decostruire costrutti culturali complessi e interiorizzati e riportare i margini al centro della discussione collettiva.
1Global Monitoring Laboratory https://gml.noaa.gov/ccgg/trends/
2EEB – Decoupling Debunked report, 2019 – link
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