Questo è un estratto di un articolo di Donatella Gasparro pubblicato su Saperi Territorializzati e su Comune-info, l’articolo completo è accessibile qui.
Spopolamento, in italiano, è una parola dal senso integro, genuino, più amicale del corrispettivo inglese depopulation. Mentre depopulation rimanda alla popolazione come soggetto statistico, lo spopolamento parla di popolo, di gente, di pueblos, paesi. Spopolamento come sottrazione della comunità, perdita dell’unità che rende un insieme di persone un popolo. Spopolamento come perdita del paese-pueblo-popolo, di una entità a misura d’uomo che esplode in una modernità sparpagliata, spaesata, alienata. Lo spopolamento non è la fine di questo o quel paese, ma “la chiusura di un mondo”[1]. La buona notizia è che questo mondo, seppur malmesso, non è ancora chiuso.
La narrazione delle risorse
Per esempio, i paesaggi interni e interi del Molise rurale, che una geografia aspra ma non troppo hanascosto all’industrializzazione incontrollata, offrono ancora spunti per un futuro altro. Ma i paesaggi, e il valore identitario e di sussistenza che incarnano da secoli per gli abitanti, sono spesso ridotti a “risorse”, nelle ridondanti retoriche sulle aree interne. Queste risorse sono generalmente considerate ciò da cui ripartire per la “valorizzazione” del territorio, una valorizzazione troppo spesso intesa in senso strettamente monetario, e che inevitabilmente scivola nella mercificazione, attraverso più o meno espliciti tentativi di turistificazione e musealizzazione.
Quella delle risorse è una narrazione che rende ulivi, maiali, fonti, orti, e boschi commodity, merce da vendere. Non conta più il valore d’uso, l’utilità immediata e di sussistenza che ulivi, maiali, fonti, orti e boschi hanno incarnato per secoli: conta solo il loro valore di scambio, il loro prezzo. La narrazione delle risorse pervade gli scritti dei più radicali degli intellettuali quando si tratta di aree marginali, rispecchiando l’ottica riformista della retorica della “transizione”: un processo per natura graduale, che sembra implicare una lenta evoluzione verso un futuro moderno, digitale, ‘verde’ e sviluppato. Quella della transizione è una retorica morbida che non riflette né l’urgenza postaci dalla crisi climatica e ambientale globale, né l’intollerabile ingiustizia sociale su cui il mondo moderno a cui aspiriamo è inevitabilmente costruito.
Da “risorse” a “pratiche”
Se è vero che bisogna “ripartire da quello che c’è, non da quello che non c’è” [2], le pratiche locali di auto-produzione e di trasformazione artigianale, assieme alla testarda condivisione, e anacronistica e radicata economia del dono – ovvero quelle tracce di una tangibile economia morale contadina [3] propria di quel mondo che va chiudendosi – potrebbero essere il punto di partenza. L’emancipazione per i territori left behind nella corsa alla modernità e alla crescita, non può tradursi nel trasformare “risorse” in “prodotti” per “mercati di nicchia” e “slow tourism” – slogan che edulcorano il processo di fondo che resta la mercificazione del territorio.
La vera emancipazione dei paesi delle aree interne non può significare “condividere il bottino” del mondo del “centro”, trasformare paesi in città, persone in lavoratori salariati alienati (che siano operai o manager) e consumatori. Come per la lotta (eco)femminista, la vera emancipazione non è entrare nella forza lavoro, ma smantellare l’egemonia del lavoro salariato sul lavoro riproduttivo e di cura alla radice [4]. Una proposta affine alla decrescita sarebbe quella di cercare l’emancipazione nell’uso diretto e democratico delle “risorse” in quanto tali, e nella demercificazione dei “prodotti” della terra e dell’artigianato: non più “opportunità di sviluppo”, ma opportunità di auto-determinazione, rilocalizzazione, riappropriazione della realtà materiale dell’economia.
Oltre gli ecomusei
Assieme alle pratiche vive e vegete ce ne sono decine che vanno assopendosi, o che sono sparite del tutto, i resti delle quali si intarlano nelle rimesse delle case vecchie. L’intera piccola industria contadina, caposaldo di una economia di paese quasi auto-sufficiente, s’è pezzo a pezzo disintegrata [2]. Ciò che resta sono le rovine di mulini ad acqua raggiungibili solo in 4×4; la molazza di pietra dell’ultimo frantoio di paese, abbandonata sulla contrada; i due telai di una sarta impolverati in soffitta, smontati da venticinque anni; la mangèinel di legno nascosta in una vecchia stalla. Le querce nascondono la contrada: si vedeva dal paese quando le greggi pascolavano sui fianchi della collina. Nei campi non cresce più il lino coi suoi fiori indaco.
Le intenzioni per valorizzare il mondo contadino che va sparendo non mancano, ma questa “valorizzazione” tende sempre alla musealizzazione, sia quando amministrazioni locali instaurano musei della civiltà contadina, che quando accademici propongono archeologie rurali per creare percorsi didattici e turistici [2]. Una proposta sarebbe quella di andare oltre la didattica, gli ecomusei e il turismo “esperienziale”. La vera valorizzazione delle pratiche contadine potrebbe forse risiedere nella rilocalizzazione dell’economia e delle attività (ri)produttive [5] oltre l’alienazione imposta dalla modernità. I paesi delle aree interne potrebbero essere laboratorio vivente per una urgente decrescita, verso una decolonizzazione dell’immaginario e all’insegna dell’autonomia. I vecchi mulini ad acqua potrebbero essere rivalorizzati, più che sulle mappe escursionistiche, come necessaria piccola industria artigianale per la soddisfazione dei bisogni locali. La civiltà contadina ci lascia in eredità non pezzi da museo, ma infrastrutture che Illich chiamerebbe conviviali [6] reinventabili e ripristinabili per fare esattamente quello per cui sono state inventate: molire il grano.
Riportare l’economia di paese in paese
L’ emancipazione dei paesi potrebbe consistere nel risvegliare l’economia di paese in paese – invece di cercare ottusamente di portare l’economia della città in paese. La modernità ha generato il trascendere delle necessità materiali e dell’economia di paese; lo ‘sviluppo’ ha prodotto una quotidianità distaccata dalla realtà fisica, dal territorio, dalla comunità e dalla riproduzione sociale. Emancipazione è trascendere la banalità del linguaggio del ‘lavoro’, e intraprendere un più profondo discorso sui bisogni – quelli reali, finali, e non i mezzi per soddisfarli. Qual è il contributo dei lavori ‘moderni’ per l’economia di paese, per la riproduzione sociale e del paesaggio? I lavori per cui i giovani se ne vanno dai paesi producono soltanto soldi – e alienazione, profitto per chi ha già troppo, e alla peggio anche disastri ambientali, rientrando spesso nelle categorie di bullshit jobs [7] e addirittura batshit jobs [8]. La vera restanza [1] è quella che ripristina e reinventa un’economia tangibile in cui noi giovani possiamo trovare soddisfazione nel provvedere ai bisogni reali delle persone.
Nei paesi dell’Italia interna non serve una transizione, ma una trasformazione profonda e urgente. La trasformazione in paese non significa spolverare il telaio della nonna ed esporlo nel museo comunale. La trasformazione in paese significa ripopolare il paesaggio di fiori indaco; sedersi con la nonna ad imparare a tessere; applicare l’ingegneria moderna e reinventarlo, il telaio, e condividere nuovi modelli in open source per replicarli altrove – sulla scia di design global, manufacture local; e ricordarsi che i fiori di ginestra si usano per fare il giallo, il mallo delle noci per il nero. Perché il passato “può e deve essere riscattato come un universo, un mondo sommerso, di potenzialità diverse non compiute ma suscettibili di future realizzazioni.”[9].
1. TETI, V. (2022) La Restanza, Einaudi Editore
2. PAZZAGLI, R., GOLINO, A., (2021) “Il Molise delle aree interne e dei paesi”, in Un altro Molise è possibile, Il Bene Comune edizioni
3. SCOTT, J. C. (1977). The Moral Economy of the Peasant Yale University Press
4. BARCA, S. (2020). Forces of Reproduction. Notes for a Counter-Hegemonic Anthropocene. Cambridge University Press
5. DE LELLIS, A. (2021) “Per una “Società della cura” dal basso e dai movimenti”, in Un altro Molise è possibile, Il Bene Comune edizioni
6. ILLICH I. (1973) Tools for Conviviality, Harper & Row
7. GRAEBER, D. (2018) Bullshit jobs: a theory. Simon & Schuster
8. RÜBNER HANSEN, B. (2019) “Batshit Jobs” – No One Should Have to Destroy the Planet to Make a Living’, OpenDemocracy UK.
9. TETI, V. (2017) Quel che resta. L’Italia dei paesi tra abbandoni e ritorni, Donzelli
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