Il fossile non è solo la risorsa principale nel modo di produzione capitalistico, ma è anche il combustibile di un apparato simbolico e di una cosmologia, cioè di una visione del mondo e dell’umanità nel mondo [1]. Questo immaginario culturale nasce con la rivoluzione energetica del capitalismo e la diffusione prima del carbone e poi del petrolio, e si basa su una dicotomia tra umanità e natura, quest’ultima vista come campo esterno e separato dalla società, un oggetto passivo, a disposizione gratuitamente e all’infinito. La visione di una natura “estraibile” e “a basso costo”, amministrata esternamente dagli esseri umani attraverso un sistema economico che può crescere all’infinito, è centrale nell’immaginario fossile che permea la nostra cultura.
Una tale visione è problematica perché porta a rimuovere la coscienza dell’interdipendenza e del limite rispetto all’ambiente circostante. Come dice Gosh ne “La grande cecità” [2], viviamo un “fallimento dell’immaginazione e della cultura” perché le griglie dell’immaginario del fossile con cui descriviamo il mondo oggi non ci permettono di cogliere le relazioni di interdipendenza che il cambiamento climatico fa emergere. Finché pensiamo la natura e la società come campi distinti, non riusciamo a concepire le nostre azioni come parte di un sistema che trasformiamo e da cui siamo trasformati, oggi più che mai. La crisi climatica diventa così “impensabile” perché siamo incapaci di creare un nuovo apparato metaforico, non più basato sulla dicotomia società-natura, con cui dare senso al cambio epocale che stiamo vivendo. La mancanza di un linguaggio adeguato per pensare il mondo e pensarci nel mondo genera un senso di spaesamento di fronte agli avvenimenti estremi di questi decenni e ciò che era sempre stato familiare e prevedibile, come la “natura”, diventa ora una minaccia imprevedibile e paralizzante.
Il petrolio ha anche contribuito a creare una visione del futuro e dell’umanità basata su una promessa di abbondanza e connessa a sogni di liberazione e di onnipotenza dell’umano. Con l’invenzione della “natura” come campo separato dalla società, si è affermato il mito dell’”abbondanza”, cioè l’idea che le risorse a cui attingere dal magazzino-natura siano disponibili in modo illimitato. Le realtà umane dell’incompletezza, dell’interdipendenza, della finitezza sono rese invisibili e nasce l’idea che ogni limite alla propria libertà possa essere eliminato grazie alla tecnologia. Questo condensato simbolico e queste rimozioni collettive stanno alla base del nostro stile di vita ad elevato utilizzo di energia, del nostro desiderio di consumo e dell’idea di benessere.
La premessa di base dell’immaginario inquinato del fossile è che esista una natura “là fuori”, ma non è sempre esistita la “natura” intesa in questo modo e non tutte le culture pensano e hanno pensato la propria relazione con gli attori ambientali nello stesso modo. Ciò non significa che quei popoli vivono “in armonia con la natura”, ma che non pensano le proprie attività, dal produrre cibo, alla socialità, alla politica, come qualcosa di separato dal campo distante che noi chiamiamo “natura”. La nostra idea di natura è storica, e quindi culturale. In alcune culture animiste di società indios in Amazzonia, per esempio, ai soggetti viventi viene riconosciuta una soggettività, un’intenzione e un punto di vista sul mondo. Secondo questa visione, conoscere il mondo è personificare, scoprire le intenzionalità degli esseri umani e non umani ed entrare in relazione.
Oggi che la crisi climatica mostra il fallimento dell’immaginario culturale della modernità legato al fossile, è necessario definire insieme un nuovo sistema di valori per pensare l’umanità e l’ambiente, urge effettuare un cambio di immaginario e di cosmologia. La transizione ecologica non sarà solo un processo tecnologico ed economico, ma un cambio di rotta verso nuovi sistemi di significato.
[1] Per approfondire: Mauro Van Aken, Decarbonizzare l’immaginario culturale: verso molteplici dichiarazioni d’interdipendenza, nei Quaderni della decrescita, n°0/2, pag. 253-263 https://quadernidelladecrescita.it/2024/01/01/rivista-02/
[2] Gosh A., 2017, La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Neri Pozza, Vicenza.
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