L’insostenibile pesantezza della moda

Decrescita · mercoledì, 22 mag 2024
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Lisa Di Giulio


Questo articolo è la versione semplificata di un articolo di Deborah Lucchetti pubblicato sull’ultimo numero dei Quaderni della Decrescita, qui puoi trovare la versione originale.


Introduzione

Negli ultimi anni, parlare di sostenibilità nel settore tessile è diventato sempre più comune. Questo fenomeno è dovuto principalmente a due motivi. Il primo riguarda la necessità delle aziende di mantenere o aumentare le loro quote di mercato, rispondendo alle crescenti preoccupazioni dei consumatori sugli impatti ambientali dei loro acquisti. La seconda ragione è la costante necessità dei brand di rinnovare la propria immagine, vendendo non solo prodotti ma anche un'idea di mondo desiderabile e sostenibile. La maggior parte dei marchi di moda ha ora una sezione dedicata alla sostenibilità sui propri siti web. Nonostante questo sia un risultato importante, frutto delle pressioni delle campagne internazionali che da decenni chiedono trasparenza sulla condotta di impresa, le informazioni fornite variano molto in termini di completezza e accuratezza. E’ ancora difficile rispondere ad alcune semplici domande, ad esempio: le lavoratrici che fabbricano i miei vestiti guadagnano un salario giusto? Lavorano in fabbriche sicure? Possono aderire liberamente ad un sindacato?


La realtà dietro le dichiarazioni

Nonostante l'apparente impegno verso la sostenibilità, un recente studio condotto in Inghilterra [1] ha rivelato che molti marchi di moda ingannano regolarmente i consumatori con dichiarazioni false o fuorvianti. Su 12 marchi e 4000 prodotti analizzati, il 62% delle dichiarazioni erano autocertificate e il 59% non rispettava le linee guida dell'Autorità inglese per la concorrenza e il mercato. H&M, ad esempio, è risultato avere il 96% delle dichiarazioni false in materia di sostenibilità. Questa pratica di greenwashing è diventata una norma, distogliendo l'opinione pubblica dai reali danni provocati all'ambiente e ai diritti umani.


L'inefficacia delle azioni volontarie

Osservando la realtà, emerge una grande distanza tra le dichiarazioni dei marchi e i fatti concreti. Se i proclami fossero veri, non vedremmo l'industria della moda come una delle più inquinanti al mondo e tra le peggiori per violazioni dei diritti umani. “Decenni di delocalizzazioni selvagge, di ricerca spasmodica del minor costo sotto la bandiera della competitività, di accelerazione del modello di produzione e consumo entro una logica di crescita infinita, hanno prodotto conseguenze sociali e ambientali sotto gli occhi di tutti”, scrive Deborah Lucchetti. Esempi concreti sono le montagne di rifiuti tessili nel deserto di Atacama e i fiumi inquinati come il Buriganga in Bangladesh.


L'illusione della green economy

La moda, nonostante i proclami, rimane un'industria pesante che sfrutta risorse naturali e lavoro del Sud Globale, causando emissioni di gas serra e rifiuti. Il sistema attuale è un sistema violento, coloniale e asimmetrico basato sull’occultamento di responsabilità dei grandi marchi committenti e sulla massima competizione tra migliaia di fornitori nel mondo, un sistema basato su un modello di produzione estrattivo e lineare che scarica i costi ambientali e sociali sulla collettività. La Responsabilità Sociale d'Impresa (RSI), diventata una retorica di sostenibilità, è spesso usata per giustificare pratiche di mercato senza effettive regolamentazioni vincolanti. La RSI viene definita da Deborah Lucchetti “una ricetta studiata a tavolino” per convincerci che la softlaw, regolata dal mercato e dalle certificazioni commerciali, sia meglio di norme vincolanti.


La necessità di una nuova regolamentazione

In un periodo in cui il fenomeno del greenwashing è diventato la norma, grazie alle pressioni di campagne internazionali, di attivisti e di sindacati, è cresciuta la consapevolezza della necessità di interventi normativi per limitare gli effetti più negativi dell'attività economica. La Strategia Europea per un Tessile Sostenibile e Circolare [2], lanciata nel 2022, mira a individuare soluzioni sistemiche ai gravi impatti dell’industria della moda, in linea con il Green Deal. Tra le azioni previste ci sono requisiti obbligatori di ecodesign, l'introduzione del passaporto digitale di prodotto e la responsabilità estesa del produttore che obbligherà le imprese a pagare un contributo proporzionale per il loro corretto smaltimento, incentivando processi di economia circolare. Inoltre, dal 2026 le aziende dovranno obbligatoriamente fornire prove evidenti sulla fondatezza di tutte le affermazioni ambientali che descrivono il loro prodotto. Buone notizie? “solo se alle parole seguono i fatti”, afferma l’autrice.


Le sfide della regolamentazione

Nonostante le buone intenzioni, il percorso verso una regolamentazione efficace è pieno di ostacoli. La Direttiva europea sulla Dovuta Diligenza in Materia di Sostenibilità delle Imprese ha incontrato resistenze politiche che ne hanno limitato l'efficacia. La direttiva affronta questioni cruciali come i salari, le condizioni di lavoro e l'impatto ambientale, imponendo alle imprese obblighi di vigilanza sulla catena del valore. Tuttavia, l'applicazione sarà limitata a un numero ridotto di imprese, riducendone così l'impatto complessivo. “Un colpo basso per milioni di lavoratrici tessili povere e sfruttate in catene di fornitura che sfuggono ad ogni forma di controllo”.


Verso una vera sostenibilità

La transizione verso un'economia circolare e sostenibile deve includere i lavoratori nelle decisioni e migliorare le loro condizioni di lavoro. Un recente studio della Cornell University [3] ha mostrato che l'industria tessile è particolarmente vulnerabile agli impatti della crisi climatica, e senza misure urgenti, i danni saranno ingenti soprattutto per i lavoratori più vulnerabili. La sostenibilità non può essere raggiunta senza affrontare le disuguaglianze sociali e ambientali. Per garantire una moda sostenibile, è necessario un cambiamento radicale del modello di produzione. In una intervista per Vogue [4], Livia Firth, nota attivista, imprenditrice e consulente per le imprese sulla sostenibilità, afferma che l’unica via d’uscita per un vero cambiamento del settore moda è la decrescita e che questa deve avvenire attraverso la giusta transizione. La protezione delle specie e della biodiversità deve diventare una priorità, chiedendoci cosa, come e quanto ha senso produrre su un pianeta esausto. Soluzioni su scala globale che riducano l'impronta ecologica delle economie più ricche e migliorino le condizioni di vita dei lavoratori dei paesi più poveri sono essenziali. Solo attraverso una rinnovata alleanza tra mondo del lavoro e attivismo ambientale possiamo sperare di superare il business as usual e costruire un futuro sostenibile. Deborah Lucchetti conclude scrivendo che ”se lo scrive anche Vogue, vuol dire che forse oggi guardare oltre la crescita non è più un tabù”.



[1] - Synthetics Anonymous Fashion brands’ addiction to fossil fuels. Changing Markets Foundation. June 2021.

http://changingmarkets.org/wp-content/uploads/2021/07/ SyntheticsAnonymous_FinalWeb.pdf


[2] - https://environment.ec.europa.eu/strategy/textiles-strategy_en?prefLang=it


[3] “HIGHER GROUND?” Report 1 and 2, ILR Global Labour Institute at Cornell University, 2023


[4] https://www.vogue.it/article/livia-firth-intervista-decrescita-just-transition

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