Intervista con Emanuele Leonardi

Decrescita · mercoledì, 17 apr 2024
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Questa settimana abbiamo intervistato sui temi della giustizia climatica e del lavoro Emanuele Leonardi, ricercatore presso l'Università di Bologna, sociologo del lavoro e dell’ambiente di formazione marxista operaista, vicino agli ambienti della decrescita da alcuni anni. Studioso di André Gorz, il suo ultimo lavoro - assieme a Paola Imperatore - è “L’era della giustizia climatica”, edito per Orthotes.

Uno dei tuoi campi di interesse è quello dell’intersezione tra movimento operaio ed ecologia, penso tra le altre cose alla lettura dell’ex GKN, cosa può offrire oggi la decrescita alla classe lavoratrice e viceversa?

La decrescita come slogan o “parola missile”, come la chiama Latouche, offre alla classe operaia un cambiamento profondo nel modo di pensare: non si può più, nell’immaginare un modo alternativo di produrre, non tenere conto che quell’alternativa deve anche includere un necessario restringimento del metabolismo sociale, cioè una riduzione dell’output produttivo del circuito economico.

Nel suo essere un movimento sociale, la decrescita dovrebbe offrire un’alleanza stabile al movimento operaio. C’è la necessità che la decrescita supporti le mobilitazioni operaie, cercando di sottolineare il loro potenziale ecologico.

Infine, la decrescita come agenda di ricerca oggi smette di essere un esercizio accademico e puramente intellettuale per diventare un’analisi del reale preziosa per il movimento operaio e per chi si occupa del rapporto tra ricerca sociale e azione sindacale. La decrescita, fin dall’inizio critica dello sviluppo sostenibile e della green economy, permette di aprire spazi di ragionamento e di mettere a fuoco il potenziale ecologico delle mobilitazioni sociali.

Riguardo al contributo del movimento operaio alla decrescita, mi trovo d’accordo con la lettura marxista classica posta con grande chiarezza da Stefania Barca nel suo articolo The Labor(s) of degrowth: il movimento operaio offre alla decrescita un soggetto politico. La tentazione, che pure era propria della decrescita dell’inizio del millennio dopo il crollo dell’Unione Sovietica, di voler parlare per la società nel suo complesso senza far riferimento a una dimensione di classe fa problema e mi sembra che l’unica possibilità razionale per realizzare la transizione ecologica sia farlo dal basso, con la classe lavoratrice al timone. Il tentativo di gestire la transizione ecologica dall’alto, unendo la logica del profitto alla logica della protezione ambientale, non può funzionare.

Se oggi il lavoro è principalmente strumento di accumulazione nelle mani della classe capitalistica, che forma assumerebbe o dovrebbe assumere nella società della decrescita? Ѐ immaginabile una rimessa al centro del lavoro riproduttivo e di cura come nel lavoro di Maria Mies?

C’è la necessità di considerare sia l’elemento della sussistenza sia, dall’altro lato, un tema che per mobilitare la classe lavoratrice è importante, cioè quello dello sviluppo economico realizzato a partire dalla capacità delle istituzioni operaie di decidere sulle politiche industriali dei vari paesi. Il caso GKN è importante in questo senso: che un collettivo di fabbrica oggi dica di voler salvaguardare il proprio lavoro ma al tempo stesso voglia che il frutto di quel lavoro sia di utilità sociale dal punto di vista ecologico, criticando l’auto privata e chiedendo di produrre autobus elettrici, è un passaggio che va messo in evidenza. Dimostra che è possibile un piano di rivendicazione operaia industriale che metta però al centro le esigenze della riproduzione sociale. E’ anche un caso in cui il rapporto con i movimenti per la giustizia climatica è fondamentale. Un altro elemento da considerare è il rapporto tra industrializzazione e agricoltura: se da un lato, c’è una visione positiva dell’automazione dei processi produttivi controllati dal basso in quanto liberatori di tempo di lavoro che può diventare tempo di vita, dall’altro lato pare evidente che di lavoro ce ne sarà sempre di più, perché la gestione e la cura del pianeta dal punto di vista agricolo sembrano richiedere.

Parliamo del tuo ultimo libro pubblicato assieme a Paola Imperatore “L’Era della giustizia cimatica: Prospettive politiche per una transizione ecologica dal basso”...

Noi (io e Paola Imperatore) partiamo dal presupposto che ci sembra che il movimento per la giustizia climatica non abbia compreso la sua stessa importanza epocale, che consiste in primo luogo nell’aver esposto il fallimento della governance climatica transnazionale top-down, nel senso del mercato, (perché c’è un top-down pubblico e uno privato, e sicuramente la governance climatica transnazionale ha giocato la carta del top-down di mercato). Non è più sufficiente soltanto dire che si sta andando troppo lentamente nella direzione desiderata. Stiamo cercando di proporre nella prima parte [del libro] una carrellata di dati, tra cui il principale è quello del 1990, una data importante nella governance climatica perché è l’anno base del protocollo di Kyoto. Il punto generale è che a Kyoto veniva detto “C’e’ un problema di emissioni CO2 equivalenti in eccesso di origine antropica… ora, noi prendiamo atto di questo problema e proponiamo una politica pubblica e privata per farvi fronte, e poi monitoriamo per vedere se funziona oppure no”. Ebbene, dal 1990 al 2021 si è emessa piu’ CO2 equivalente di quella emessa tra il 1950 e il 1990, e a queste condizioni ovviamente l’argomento che noi proponiamo ai movimenti e che il problema non è che noi stiamo andando troppo lentamente nella direzione desiderata. Quindi la funzione dei movimenti, della societa’ civile non puo’ essere quella di accelerare il processo, perché in realtà si sta andando ad amplissime falcate nella direzione opposta a quella dichiarata come desiderata. In realtà si tratta di cambiare la direzione perché il modo in cui è stato concepito politicamente quel tipo di strumento era sbagliato alla radice in quanto partiva dalla centralità del mercato.

Se questa proposta del libro è plausibile e se i movimenti la accetteranno, ne derivano una serie di conseguenze che tentiamo di esplorare. Quello che in questa intervista voglio mettere in evidenza è che nei fatti si è prodotto un interesse inedito nei movimenti per la giustizia climatica per i temi classicamente legati alla questione sociale. Tutti i dati legati alle emissioni che fino al 2019 e ai grandi scioperi erano letti a partire dalle lenti dello Stato - e quindi se nella storia delle emissioni assolute il cattivo era la Cina, o la Cina e l’India, e se nella storia delle emissioni pro-capite il cattivo erano gli Stati Uniti o la Federazione Russa - quegli stessi dati invece, dal 2019 vengono letti spacchettati per classi di reddito, e quello che ne esce sono dati molto interessanti, soprattutto se rapportati a uno scenario mediano, dell’IPCC legato all’accordo di Parigi, quindi quello di limitare a 1.5° l’aumento della temperatura media del pianeta al 2100. In uno scenario di emissione egualitaria, quindi se ogni individuo dovesse emettere il suo carbon budget per arrivare a quell'obiettivo ambizioso, il 50% piu’ povero della popolazione potrebbe più che raddoppiare le proprie emissioni.

Il 40% mediano, dove di norma si situa chi abita alle nostre latitudini, dovrebbe ampiamente rivedere il proprio stile di vita, ma con dei cambiamenti che, specialmente se in presenza di politiche pubbliche efficaci nello spingere in questa direzione, non implicano assolutamente delle rivoluzioni di stili di vita. Chi invece deve estinguere il proprio modo di consumare sono il 10% più ricco e all’interno di questo 10% ovviamente il vertice, legato al famoso 1%. Concludo dicendo che se questo piano legato ai consumi è ormai abbastanza stabilito nella letteratura e piuttosto incorporato nella pratica dei movimenti, rimane aperto e ci vuole piu’ ricerca, ma soprattutto piu’ elaborazione politica, per andare a indagare invece il punto di vista della produzione, cioè quanto ci costringe ad emettere in eccesso il fatto che il sistema finanziario protegga e spinga il capitalismo fossile invece che produzioni anche tecnologiche in scala ridotta, decentralizzate, gestite democraticamente. Questo è un punto che secondo me bisogna indagare maggiormente ma che comunque noi proponiamo, benché in fase embrionale, nel libro.

Per concludere, perché oggi la decrescita è necessaria e non è più rimandabile?

Questa è una domanda a cui per paradosso è difficile rispondere, perché mi pare del tutto auto-evidente, e da tantissimi punti di vista. Se porto una risposta di tipo astratto - sarebbe “Perche’ la scienza ci dice cosi” - secondo me entriamo in un campo problematico quando poi cerchiamo di tradurla in termini concreti, di conquista di pezzi di consenso. Nel senso che il pezzo di società che è sensibile a quell’argomento non è il pezzo di società che ci serve per fare la transizione ecologica dal basso, o meglio, serve anche quel pezzo, ma non è quello che può trainare, secondo me. Perciò, localizzando le risposte che ti do, faccio riferimento a due elementi. Sul piano del cambiamento climatico, l’effetto che noi vediamo, e parlo degli abitanti dell’Emilia Romagna, è una frequenza di eventi meteorologici estremi, quindi di rischio di alluvioni etc., che è incompatibile con la prosecuzione di una vita tranquilla. Una delle cose che abbiamo imparato è che ormai è molto difficile sganciarsi dalla consapevolezza che ci sia un problema legato al cambiamento climatico. Quindi il nostro problema dovrebbe essere quello di costruire su questa consapevolezza, ormai molto diffusa, un piano politico praticabile per conseguire la decrescita. Io sono convinto che la decrescita è necessaria, perché vediamo il moltiplicarsi di problemi. Ma piu’ che giocare sul lato necessario, che io ritengo vero ma poco spendibile politicamente, secondo me il grosso sforzo deve stare nel fatto che, dentro una consapevolezza diffusa che la problematica che la decrescita pone debba essere affrontata, affinché anche le soluzioni che la decrescita propone diventino possibili, occorre ragionare in termini di desiderabilità. Il che significa allineare gli interessi delle classi popolari agli obiettivi a breve e lungo periodo della rivoluzione della decrescita. Se facciamo questo abbiamo più chances. Un elemento è dato dall’aumento della frequenza degli eventi estremi e l’altro - lo dico come abitante della Pianura Padana - la qualità dell'aria è drammaticamente pessima. Come nel mio caso, di genitore di bambine piccole, c’è il problema che questo posto è un posto insalubre nell’esperienza quotidiana dei corpi che lo abitano. E anche qui, questa consapevolezza va legata a un piano fattibile di modifica in meglio della situazione. Perché uno dei rischi è che se affianchiamo a una consapevolezza diffusa della ragionevolezza della decrescita, una consapevolezza diffusa dell'impraticabilità della decrescita, quello che otteniamo è una sorta di negativismo rancoroso. Cioè, se la persona che devi convincere e acquistare il suo consenso, da un lato ti dice: “Sì capisco, hai ragione” e dall’altro ti dice: “Io non lo posso fare, perche’ la mia esperienza non è compatibile con quello che mi chiedi di fare”, nel giro di poco tempo avrai questa persona che ti odia profondamente, perché tu sei quello che dice la verità ma non puo’ rendere questa prospettiva reale. Qui si tratta di giocare bene la partita politica: io non ho la soluzione, pero’ mi piacerebbe vedere più ‘ragionamenti su questo piano e meno “Ah ecco avete visto quest’ultimo report ci dimostra che...” Ormai quello lo sappiamo, e anche l’esperienza delle persone lo conferma, e abbiamo una finestra di opportunità non infinita per essere gli interpreti politici di quella consapevolezza e la decrescita deve giocare quella partita lì secondo me, assieme all’eco-socialismo.


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