Decrescita: Un appello per l’Abbondanza Radicale (di Jason Hickel)

Decrescita · lunedì, 08 apr 2024
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Tratto da un articolo di Jason Hickel pubblicato sul suo blog personale e tradotto dal Gruppo tematico economia&decrescita di MDF.

Quando gli economisti ortodossi si imbattono per la prima volta nell’idea della decrescita, spesso saltano alla conclusione che l’obiettivo sia quello di ridurre il PIL; e poiché vedono il PIL come equivalente della ricchezza sociale, ne rimangono sconvolti. Ma nulla potrebbe essere più lontano dalla realtà.

La decrescita rifiuta la feticizzazione del PIL come obiettivo nell’economia esistente. Di conseguenza, non avrebbe molto senso puntare sul PIL come obiettivo di un’economia di decrescita. Voler ridurre il PIL è insensato quanto volerlo far crescere.

L’obiettivo, piuttosto, è quello di ridurre il volume di produzione materiale dell’economia, che è ciò che conta davvero da un punto di vista ecologico. Alcuni economisti ortodossi potrebbero anche essere d’accordo. La differenza tra i due punti vista sta nel fatto che, se loro da un lato insistono nel credere (negando l’evidenza) che ciò sia possibile senza rinunciare alla crescita del PIL, la decrescita riconosce che ciò comporterà probabilmente una riduzione del PIL, almeno nel modo in cui lo misuriamo attualmente. In altre parole, se dovessimo continuare a misurare l’economia in base al PIL, questo è ciò che vedremmo in uno scenario di decrescita.

E va bene così. Va bene, perché sappiamo che gli esseri umani possono prosperare senza un livello di PIL estremamente elevato.

A difesa di questo ragionamento, una delle affermazioni fondamentali dell’economia della decrescita è che, ripristinando i servizi pubblici ed ampliando i beni comuni, le persone potranno accedere ai beni di cui hanno bisogno per vivere degnamente senza bisogno di redditi particolarmente alti.

Prendiamo Londra, per esempio. I prezzi delle abitazioni a Londra sono astronomici, al punto che un normale appartamento con una camera da letto può costare più di un milione di dollari. Questi prezzi non rispecchiano il valore reale e sono per la maggior parte una conseguenza della speculazione finanziaria e del quantitative easing. Ora immaginate se il governo volesse limitare il prezzo delle abitazioni alla metà rispetto al livello attuale. I prezzi sarebbero ancora scandalosamente alti, ma i londinesi potrebbero improvvisamente lavorare e guadagnare molto meno di quanto non facciano ora senza che la loro qualità di vita ne risenta in alcun modo. Al contrario, ci guadagnerebbero in termini di tempo, che potrebbero trascorrere con gli amici e la famiglia, dedicandosi alle loro passioni, migliorando la loro salute e il loro benessere mentale, ecc.

Gli altissimi e irreali prezzi degli alloggi a Londra obbligano le persone a lavorare un numero esagerato di ore per guadagnare il denaro necessario ad accedere a un alloggio decente – a cui prima potevano accedere semplicemente con una parte del reddito. La conseguenza di questa esigenza è che siamo tutti costretti a contribuire inutilmente alla forza inarrestabile della produzione, che deve a sua volta trovare uno sbocco sotto forma di consumi sempre maggiori.

Questo problema, vecchio quanto il capitalismo stesso, affonda le sue radici nelle cosiddette enclosures (recinzioni).

Ellen Wood sostiene che le origini del capitalismo risiedono nel fenomeno delle enclosures (recinzione delle terre comuni) in Inghilterra, durante il quale le élite benestanti recintarono con delle mura i beni comuni e costrinsero i contadini a lasciare le terre in una lunga e violenta campagna di espropriazione. Questo periodo vide l’abolizione dell’antico “diritto d’uso”, un tempo sancito dalla Carta della Foresta, che garantiva alla gente comune l’accesso alle risorse necessarie alla sopravvivenza.

All’improvviso, i contadini inglesi erano sottoposti a un nuovo regime: per sopravvivere, dovevano competere tra loro per l’accesso ai terreni appena privatizzati. Di conseguenza, per potersi permettere l’affitto e poter continuare a coltivare, i contadini dovevano trovare il modo di estrarre sempre di più dalla terra, e dal lavoro, anche se ciò si traduceva in un’enorme eccedenza rispetto al bisogno. Se così non facevano, e se perdevano le terre affittate, rischiavano la fame. Naturalmente, la stessa situazione, l’obbligo di una produttività sempre maggiore, si manifestava anche nel settore industriale.

In altre parole, la nascita del capitalismo impose la creazione di scarsità. La creazione costante di scarsità è il motore dell’espansione capitalistica.

Fondamentalmente, la scarsità è stata creata in modo artificiale dall'accumulazione dell’élite e supportata dalla violenza di Stato. In Inghilterra, ad esempio, non esisteva una scarsità reale. C’erano ancora le stesse terre, le stesse foreste e le stesse risorse, proprio come c’erano sempre state. Ma vennero chiuse e recintate. E per sopravvivere, la gente non ebbe altra scelta che partecipare a questa forza devastante.

Oggi la forza della scarsità la sentiamo nella costante minaccia della disoccupazione. Dobbiamo essere sempre più produttivi sul lavoro, altrimenti perderemo il lavoro a causa di qualcuno che sarà più produttivo di noi. Ma c’è un paradosso: man mano che la produttività aumenta, la necessità di manodopera diminuisce. I lavoratori vengono licenziati e si ritrovano senza mezzi di sussistenza, diventando vittime della scarsità artificiale. A questo punto lo Stato, cercando disperatamente di ridurre la disoccupazione, deve trovare il modo di far crescere l’economia per creare nuovi posti di lavoro, proprio perché le persone possano sopravvivere. E tutti noi lavoratori ci uniamo al coro, gridando: “Vogliamo la crescita! Abbiamo bisogno di posti di lavoro!”

La scarsità crea reclute all’ideologia della crescita.

Anche le persone che si preoccupano della crisi ecologica, ovvero la maggior parte di noi, sono costrette a sottomettersi a questa logica: se hai cuore la vita umana, invochi la crescita. Dell’ambiente ci occuperemo in un secondo momento.

Ma non ci sarà un dopo, perché il problema della scarsità non risolve mai. Ogni volta che la scarsità sta per essere risolta, viene sempre rapidamente prodotta di nuovo. Se pensiamo ad esempio che per 150 anni gli economisti hanno previsto che “nel futuro prossimo la nostra economia sarà così produttiva e piena che non dovremo lavorare più di qualche ora al giorno”, vediamo come questa previsione non si avvera mai. Questo perché il capitalismo trasforma anche i più spettacolari aumenti di produttività non in abbondanza e libertà umana, bensì in scarsità.

Strano, vero? L’ideologia del capitalismo si presenta come un sistema che genera un’immensa abbondanza (quanti beni materiali!). In realtà, è un sistema che si basa sulla costante produzione di scarsità.

Questo paradosso fu notato per la prima volta nel 1804 e divenne noto come il Paradosso di Lauderdale. Lauderdale sottolineava che l’unico modo per aumentare le “ricchezze private” (in sostanza, il PIL) era di ridurre quella che chiamava “ricchezza pubblica”, o i beni comuni. Come? Recintando beni che una volta erano gratuiti in modo che la gente dovesse pagare per accedervi. Per dare un’idea, Lauderdale constatò che spesso i colonizzatori bruciavano persino gli alberi da frutto e da frutta secca per impedire agli autoctoni di vivere dell’abbondanza naturale della terra e per costringerli a lavorare in cambio di un salario con cui potersi nutrire.

Oggi assistiamo allo stesso fenomeno nelle infinite ondate di privatizzazioni che si sono scatenate in tutto il mondo. L’istruzione? La sanità? I parchi? Le piscine? La previdenza sociale? L’acqua? Tutti i beni sociali devono essere privatizzati, cioè resi scarsi. Le persone devono essere obbligate a pagare per accedervi. E per poter pagare devono, ovviamente, lavorare, competendo tra loro nel mercato del lavoro per essere sempre più produttivi.

Questa logica raggiunge il suo punto più estremo nella visione contemporanea dell’austerità. Che cos’è l’austerità, in realtà? È un tentativo disperato di rimettere in moto i motori della crescita tagliando gli investimenti pubblici in beni sociali e previdenza sociale, sacrificando ciò che resta dei beni comuni, in modo che le persone finiscano di nuovo in balia della fame, costrette ad aumentare la loro produttività se vogliono sopravvivere. Lo scopo dell’austerità è creare scarsità. Bisogna indurre la sofferenza – anzi, la povertà – in nome di una maggiore crescita.

Non deve essere per forza così. Possiamo fermare la pazzia e bloccare questo meccanismo. Ripristinando i beni sociali e riaprendo i beni comuni, possiamo garantire che le persone siano in grado di accedere ai beni di cui hanno bisogno per vivere una vita degna senza dover generare enorme reddito e senza quindi dover alimentare la macchina della crescita infinita. Le “ricchezze private” diminuiranno, come ha sottolineato Lauderdale, ma la ricchezza pubblica aumenterà.

In questo senso, la decrescita è l’esatto opposto dell’austerità. Mentre l’austerità richiede scarsità per generare crescita, la decrescita richiede abbondanza per rendere inutile la crescita.

La decrescita, in sostanza, è una richiesta di radicale abbondanza.

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